Abiti per abitare
Le case di Adolf Loos
Federico De Matteis
«Posso condurvi sulle sponde di un lago montano? Il cielo è azzurro, l’acqua verde e tutto è pace profonda. I monti e le nuvole si specchiano nel lago, e così anche le case, le corti e le cappelle. Sembra che stiano lì come se non fossero state create dalla mano dell’uomo. Come se fossero uscite dall’officina di Dio, come i monti e gli alberi, le nuvole e il cielo azzurro. E tutto respira bellezza e pace…
Ma cosa c’è là? Una stonatura s’insinua in questa pace. Come uno stridore inutile. Fra le case dei contadini, che non da essi furono fatte, ma da Dio, c’è una villa. L’opera di un buono o di un cattivo architetto? Non lo so. So soltanto che la pace, la quiete e la bellezza se ne sono già andate» (Loos 1972: 241).
Queste parole aprono uno dei più celebri scritti dell’architettura del XX secolo: il saggio Architettura, scritto nel 1910 da Adolf Loos. Leggere attentamente l’incipit di questo saggio può aiutarci a comprendere perché, più di molte altre, la figura di Loos occupi un posto rilevante se consideriamo il fare architettura come pratica profondamente connessa allo spazio reale della percezione. Motivo, questo, per il quale ho scelto oggi di parlare di alcune case dell’architetto austriaco, considerate come “abiti per abitare”.
Adolf Loos non è né un personaggio minore, né poco investigato. Al contrario, la quantità di studi antichi e recenti sulla sua opera è imponente, tanto che, solo per citarne uno, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ha ospitato, nel 2006, una mostra intitolata “Adolf Loos: Architettura utilità e decoro”, curata da Richard Bösel e Vitale Zanchettin. Eppure, nonostante il forte interesse nei suoi confronti – interesse partito peraltro in buona parte proprio dall’Italia, grazie ad alcuni scritti “classici” di Ernesto Rogers e Aldo Rossi risalenti al 1959 (Rogers 1959; Rossi 1959) – Loos rimane, pur nella sua dimensione mitica, una figura elusiva, difficilmente inquadrabile, tanto interessante quanto ricca di contraddizioni.
A differenza di altri “maestri” del Novecento, il lascito di Loos è stato tutto sommato esiguo. Una manciata di opere realizzate, la gran parte interni che lo stesso architetto non considerava propriamente “architetture” (Loos 1972: 189), molti dei quali sono arrivati a noi soltanto attraverso immagini fotografiche. Alcuni negozi e caffè; una dozzina di case unifamiliari realizzate nell’arco di circa venti anni – ben poco se paragonato alla corposissima produzione di altri autori; un edificio nella Michaelerplatz di Vienna, la sua opera più nota, più molti progetti rimasti su carta. Infine, due raccolte di scritti: Ins Leere gesprochen, “Parole nel vuoto” (1922) e Trotzdem, “Nonostante tutto” (1931). Si tratta di “scritti d’occasione”, testi di lezioni e conferenze, articoli comparsi su giornali, recensioni, insomma tutto tranne che un corpus sistematico, piuttosto considerazioni ad ampio raggio su quasi tutti i problemi dell’architettura moderna: dal rapporto con la storia e il linguaggio classico alla costruzione, dall’impatto della cultura di massa alla città contemporanea, e via dicendo. Nonostante questo – o forse proprio in virtù della trasversalità e immediatezza delle considerazioni di Loos – il suo impatto sulla cultura architettonica del Novecento è stato profondissimo, ancora oggi difficile da misurare. Non tanto sulla produzione architettonica in sé – l’unico edificio veramente “loosiano” realizzato è, curiosamente, la casa costruita da Wittgenstein a Vienna nel 1929 per la sorella Margaret – quanto sui fondamenti disciplinari del fare architettura.
L’aspetto dell’opera di Loos sul quale mi voglio concentrare oggi ha a che fare con il carattere distintamente atmosferico delle sue architetture. È questo un tema che emerge continuamente dai suoi scritti, a partire proprio dall’incipit del saggio Architettura. Il quadro idillico dipinto dalle prime righe di testo – una sorta di Urszene archetipica dedotta dal paesaggio delle Alpi austriache – ha lo scopo di evocare, per l’appunto, una particolare Stimmung, “armonica intonazione”, determinata dalla configurazione e concordanza di tutti gli oggetti, sia naturali sia artificiali, che abitano lo spazio della valle montana, e rispetto ai quali la villa costruita dall’architetto rappresenta, nelle parole di Loos, «una stonatura».
Non è tanto rilevante in questa sede discutere delle ragioni per l’avversione di Loos nei confronti degli architetti suoi contemporanei, peraltro uno dei leitmotiv dei suoi scritti. Viene contestata, in questo caso, la loro incapacità di porre l’opera in accordo con l’atmosfera del luogo: «Non soltanto i materiali ma anche le forme edilizie sono legate al luogo, alla natura del terreno e all’aria» (Loos 1972: 234-235). Non si tratta, però, di un blando contestualismo, come dimostrerà Loos costruendo nel 1929 la casa Khuner sui colli del Semmering, presso Vienna (Fig. 1). Benché realizzato adoperando sistemi costruttivi tradizionali in muratura portante e legno, l’edificio non concede spazio alcuno al gusto pittoresco, mostrando al contrario come architettura spontanea e progetto moderno possano coesistere felicemente.
Come avremo modo di vedere, casa Khuner è ben diversa rispetto alle altre abitazioni progettate da Loos. In ciascun caso l’architettura nasce da un’accurata osservazione del sentimento del luogo, dettata dall’esigenza di ridurre il grado di astrazione delle opere, connettendole profondamente all’esperienza di chi le abiterà. Se questo è vero per la concezione degli involucri esterni delle case, lo è ancora di più se consideriamo il lavoro quasi “intimista” che Loos conduce nella definizione degli spazi interni. È emblematica, in questo senso, la stanza da letto che Loos realizza nel 1902 per la sua prima moglie, l’attrice diciannovenne Lina Obertimpfler (Fig. 2). Nell’appartamento viennese che la coppia occuperà per la durata del breve matrimonio – appena tre anni – ciascun ambiente viene concepito, in termini di dimensioni, arredi, materiali e finiture, per generare una particolare atmosfera. Così la stanza della giovane Lina diviene una sorta di “morbida culla”, lo spazio più intimo della casa: bianche le pareti, bianche le tende in tela batista e il tappeto d’angora sul letto; gli armadi nascosti dietro a tende di lino anch’esso bianco: «Questa è un’architettura del silenzio, di stampo sentimentale ed erotico. […] Esemplifica il metodo compositivo rigorosamente governato dallo status psicologico di ciascuna stanza» (Tournikiotis 1994: 36).
fonte: http://www.vg-hortus.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1683:abiti-per-abitare-le-case-di-adolf-loos&catid=13:studi-storici&Itemid=15
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